ottobre 06, 2018
Si procede all’analisi di situazioni endofamiliari e tra coniugi che versino in un particolare momento “patologico” del rapporto, in cui un soggetto ponga in essere condotte di illecita interferenza nella vita del familiare al fine di raccogliere “prove” da utilizzare in ambito giudiziario, a sostegno o a difesa di una tesi (solitamente, l’infedeltà). Le anzidette interferenze, nella prassi, si concretizzano perlopiù in illecite intromissioni nella corrispondenza dell’altro (intesa come qualsiasi forma epistolare, anche via web), indebita registrazione di conversazioni in ambito domestico, videoriprese all’interno di luoghi di privata dimora anche mediante intervento di investigatore privato. La Carta Costituzionale tutela le libertà individuali quali diritti fondamentali e inviolabili di ogni essere umano. In particolare, l'art. 15 tutela la libertà e segretezza della corrispondenza prevedendo che la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. Per corrispondenza deve intendersi non solo la posta epistolare cartacea ma tutte le attuali forme di comunicazione come ad esempio SMS, e-mail, Whatsapp, Telegram, Facebook, etc. Nessun rapporto tra persone, nemmeno il rapporto matrimoniale tra i coniugi, quindi, può limitare tale diritto. Già a far tempo dagli anni Settanta, la giurisprudenza non riconosceva al coniuge alcuno jus corrigendi sull’altro, né tantomeno il diritto di controllarne fraudolentemente le telefonate o la corrispondenza, neppure se l'attività fraudolenta fosse stata ispirata dal desiderio di accertare la sospetta infedeltà. Tale orientamento veniva ripreso e confermato vent’anni più tardi dalla Suprema Corte, la quale stabiliva che i doveri di solidarietà matrimoniale devono coesistere, in quanto non incompatibili, con il diritto alla riservatezza proprio di ciascun coniuge, che rimane intangibile anche in presenza di infedeltà matrimoniale (Cass. pen., Sez. V, 24 maggio 1974, n. 8198). In realtà, a tutt’oggi, si devono rilevare alcune pronunce recenti di tribunali che - in materia di riservatezza tra coniugi - mostrano una (ancor) lieve tendenza indirizzata verso il convincimento che il legame matrimoniale, unitamente alla coabitazione e alla condivisione degli spazi, vada ad affievolire in maniera rilevante la sfera di riservatezza di entrambi i coniugi. Sotto il profilo squisitamente penalistico, occorre tener presente che leggere le e-mail, i messaggi su Facebook e su Whatsapp, gli SMS e tutto ciò che può essere contenuto in programmi tecnologici di messaggistica, senza avere ottenuto il preventivo consenso del coniuge o del partner, costituisce reato. Nello specifico, introdursi nella casella mail del coniuge, senza averne ottenuto il consenso, configura il reato previsto e punito dall’art. 615-ter c.p. “accesso abusivo a sistema informatico o telematico”, trattandosi di uno spazio privato, accessibile soltanto mediante identificazione da parte del titolare (Cass. pen. sez. V, n. 13057/15). Risponde, altresì, del delitto di “violazione di corrispondenza altrui” ex art. 616 c.p., colui il quale semplicemente acceda alla casella mail altrui (a sua insaputa), sfruttando la memorizzazione delle credenziali di accesso nel sistema informatico. La Suprema Corte si è, addirittura, spinta a ritenere configurabile il reato di rapina ex art. 628 c.p., nel caso in cui un soggetto sottragga con forza alla fidanzata il telefono cellulare al fine di rivelare al padre della donna la relazione che la stessa aveva intrapreso con altro uomo (Cass. pen., Sez. II, 10 marzo 2015, n. 11467). In tal caso, l’ingiusto profitto – ben potendosi concretizzare in “ogni utilità” anche al di fuori del mero dato economico – era individuabile nella soddisfazione “morale” di ottenere una propria rivincita personale. Parimenti, l’installazione di apparecchiature atte alla registrazione di conversazioni telefoniche costituisce reato, in conformità a quanto stabilito dall’art. 617-bis c.p. (Cass. pen., Sez. V, 17 luglio 2014, n. 41192). A fronte delle numerose condotte che – in linea teorica – paiono idonee a configurare ipotesi di reato, si pone la problematica inerente all’utilizzazione processuale delle prove ottenute in maniera illecita. Sul punto, la summa divisio è tra utilizzabilità in sede civile e utilizzabilità in sede penale. Nel giudizio civile, in linea generale, possono essere utilizzate solo le prove ottenute in modo lecito e - pertanto - se le stesse provengono da condotte penalmente rilevanti, così come sopra se ne riportano alcuni casi esemplificativi, la prova non ha alcuna rilevanza processuale (Cass. civ., sez. VI, n. 22677/16). Mentre il codice di procedura civile non presenta una disposizione specifica sul tema delle prove illecite, in ambito penalistico l'art. 191 c.p.p. disciplina le “prove illegittimamente acquisite” stabilendo, in particolare, che “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate” e “l'inutilizzabilità è rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento”. Merita, in questa sede, di essere approfondita la categoria della “inutilizzabilità”, così come intesa dal legislatore penale. La Suprema Corte ha, infatti, stabilito che l’art. 191 c.p.p., nella parte in cui sancisce l’inutilizzabilità delle prove ottenute in violazione dei divieti di legge, deve essere interpretato nel senso che la prova risulta inutilizzabile solo se illegittima di per sé, in quanto intrinsecamente illecita per il contesto di norme che la disciplinano e che ne prevedono già una sanzione, e non per essere stata ottenuta in maniera non rituale o atipica. In ossequio a tale orientamento, prove diverse da quelle legittimamente acquisite debbono intendersi non tutte le prove le cui formalità di acquisizione non siano state osservate, ma solo quelle che non si sarebbero potute acquisire proprio in ragione dell'esistenza di un espresso o implicito divieto (Cass. pen., Sez. II, 27 marzo 2008, n. 15877). Pertanto, risultano inutilizzabili non prove “atipiche” o “illegittime” ma soltanto prove illegalmente ottenute poiché l’attività profusa per ottenerle costituisce di per sé violazione sanzionata da norme giuridiche espresse. Proprio in questo senso, l’art. 191 c.p.p. è posto a tutela della difesa e limita grandemente le prove a carico illegittimamente acquisite in quanto non può essere esclusa a priori la prova illecita laddove questa vada a vantaggio della difesa mentre, contestualmente, la medesima non può essere valutata “positivamente” al fine di strutturare una accusa, sia essa privata o pubblica. Se è pur vero che la norma di cui all’art. 191 è inclusa nel codice di procedura penale, è altrettanto lampante come il solenne significato che la stessa norma porta con sé, di evidente derivazione costituzionale, si estende analogicamente anche all’ambito civile, che ne subisce l’influenza. Non sarebbe, infatti, logico un ordinamento che, da un lato, dichiarasse inutilizzabili prove illecite in quanto formatesi in contrasto con norme espressamente previste e, dall’altro lato, le ritenesse in qualche modo ammissibili in quanto utili alla mera funzione processuale.
Avv. Francesco Cavazzuti
Si procede all’analisi di situazioni endofamiliari e tra coniugi che versino in un particolare momento “patologico” del rapporto, in cui ...
“Spionaggio” familiare e coniugale: tutele giuridiche

“Spionaggio” familiare e coniugale: tutele giuridiche
“Spionaggio” familiare e coniugale: tutele giuridiche
ottobre 06, 2018
Si procede all’analisi di situazioni endofamiliari e tra coniugi che versino in un particolare momento “patologico” del rapporto, in cui un soggetto ponga in essere condotte di illecita interferenza nella vita del familiare al fine di raccogliere “prove” da utilizzare in ambito giudiziario, a sostegno o a difesa di una tesi (solitamente, l’infedeltà). Le anzidette interferenze, nella prassi, si concretizzano perlopiù in illecite intromissioni nella corrispondenza dell’altro (intesa come qualsiasi forma epistolare, anche via web), indebita registrazione di conversazioni in ambito domestico, videoriprese all’interno di luoghi di privata dimora anche mediante intervento di investigatore privato. La Carta Costituzionale tutela le libertà individuali quali diritti fondamentali e inviolabili di ogni essere umano. In particolare, l'art. 15 tutela la libertà e segretezza della corrispondenza prevedendo che la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. Per corrispondenza deve intendersi non solo la posta epistolare cartacea ma tutte le attuali forme di comunicazione come ad esempio SMS, e-mail, Whatsapp, Telegram, Facebook, etc. Nessun rapporto tra persone, nemmeno il rapporto matrimoniale tra i coniugi, quindi, può limitare tale diritto. Già a far tempo dagli anni Settanta, la giurisprudenza non riconosceva al coniuge alcuno jus corrigendi sull’altro, né tantomeno il diritto di controllarne fraudolentemente le telefonate o la corrispondenza, neppure se l'attività fraudolenta fosse stata ispirata dal desiderio di accertare la sospetta infedeltà. Tale orientamento veniva ripreso e confermato vent’anni più tardi dalla Suprema Corte, la quale stabiliva che i doveri di solidarietà matrimoniale devono coesistere, in quanto non incompatibili, con il diritto alla riservatezza proprio di ciascun coniuge, che rimane intangibile anche in presenza di infedeltà matrimoniale (Cass. pen., Sez. V, 24 maggio 1974, n. 8198). In realtà, a tutt’oggi, si devono rilevare alcune pronunce recenti di tribunali che - in materia di riservatezza tra coniugi - mostrano una (ancor) lieve tendenza indirizzata verso il convincimento che il legame matrimoniale, unitamente alla coabitazione e alla condivisione degli spazi, vada ad affievolire in maniera rilevante la sfera di riservatezza di entrambi i coniugi. Sotto il profilo squisitamente penalistico, occorre tener presente che leggere le e-mail, i messaggi su Facebook e su Whatsapp, gli SMS e tutto ciò che può essere contenuto in programmi tecnologici di messaggistica, senza avere ottenuto il preventivo consenso del coniuge o del partner, costituisce reato. Nello specifico, introdursi nella casella mail del coniuge, senza averne ottenuto il consenso, configura il reato previsto e punito dall’art. 615-ter c.p. “accesso abusivo a sistema informatico o telematico”, trattandosi di uno spazio privato, accessibile soltanto mediante identificazione da parte del titolare (Cass. pen. sez. V, n. 13057/15). Risponde, altresì, del delitto di “violazione di corrispondenza altrui” ex art. 616 c.p., colui il quale semplicemente acceda alla casella mail altrui (a sua insaputa), sfruttando la memorizzazione delle credenziali di accesso nel sistema informatico. La Suprema Corte si è, addirittura, spinta a ritenere configurabile il reato di rapina ex art. 628 c.p., nel caso in cui un soggetto sottragga con forza alla fidanzata il telefono cellulare al fine di rivelare al padre della donna la relazione che la stessa aveva intrapreso con altro uomo (Cass. pen., Sez. II, 10 marzo 2015, n. 11467). In tal caso, l’ingiusto profitto – ben potendosi concretizzare in “ogni utilità” anche al di fuori del mero dato economico – era individuabile nella soddisfazione “morale” di ottenere una propria rivincita personale. Parimenti, l’installazione di apparecchiature atte alla registrazione di conversazioni telefoniche costituisce reato, in conformità a quanto stabilito dall’art. 617-bis c.p. (Cass. pen., Sez. V, 17 luglio 2014, n. 41192). A fronte delle numerose condotte che – in linea teorica – paiono idonee a configurare ipotesi di reato, si pone la problematica inerente all’utilizzazione processuale delle prove ottenute in maniera illecita. Sul punto, la summa divisio è tra utilizzabilità in sede civile e utilizzabilità in sede penale. Nel giudizio civile, in linea generale, possono essere utilizzate solo le prove ottenute in modo lecito e - pertanto - se le stesse provengono da condotte penalmente rilevanti, così come sopra se ne riportano alcuni casi esemplificativi, la prova non ha alcuna rilevanza processuale (Cass. civ., sez. VI, n. 22677/16). Mentre il codice di procedura civile non presenta una disposizione specifica sul tema delle prove illecite, in ambito penalistico l'art. 191 c.p.p. disciplina le “prove illegittimamente acquisite” stabilendo, in particolare, che “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate” e “l'inutilizzabilità è rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento”. Merita, in questa sede, di essere approfondita la categoria della “inutilizzabilità”, così come intesa dal legislatore penale. La Suprema Corte ha, infatti, stabilito che l’art. 191 c.p.p., nella parte in cui sancisce l’inutilizzabilità delle prove ottenute in violazione dei divieti di legge, deve essere interpretato nel senso che la prova risulta inutilizzabile solo se illegittima di per sé, in quanto intrinsecamente illecita per il contesto di norme che la disciplinano e che ne prevedono già una sanzione, e non per essere stata ottenuta in maniera non rituale o atipica. In ossequio a tale orientamento, prove diverse da quelle legittimamente acquisite debbono intendersi non tutte le prove le cui formalità di acquisizione non siano state osservate, ma solo quelle che non si sarebbero potute acquisire proprio in ragione dell'esistenza di un espresso o implicito divieto (Cass. pen., Sez. II, 27 marzo 2008, n. 15877). Pertanto, risultano inutilizzabili non prove “atipiche” o “illegittime” ma soltanto prove illegalmente ottenute poiché l’attività profusa per ottenerle costituisce di per sé violazione sanzionata da norme giuridiche espresse. Proprio in questo senso, l’art. 191 c.p.p. è posto a tutela della difesa e limita grandemente le prove a carico illegittimamente acquisite in quanto non può essere esclusa a priori la prova illecita laddove questa vada a vantaggio della difesa mentre, contestualmente, la medesima non può essere valutata “positivamente” al fine di strutturare una accusa, sia essa privata o pubblica. Se è pur vero che la norma di cui all’art. 191 è inclusa nel codice di procedura penale, è altrettanto lampante come il solenne significato che la stessa norma porta con sé, di evidente derivazione costituzionale, si estende analogicamente anche all’ambito civile, che ne subisce l’influenza. Non sarebbe, infatti, logico un ordinamento che, da un lato, dichiarasse inutilizzabili prove illecite in quanto formatesi in contrasto con norme espressamente previste e, dall’altro lato, le ritenesse in qualche modo ammissibili in quanto utili alla mera funzione processuale.
Avv. Francesco Cavazzuti
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