Indagini difensive: L'atto prodotto dal difensore ha lo stesso valore di quello redatto dal PM Rif. Cassazione penale, Sez. III, s...
Indagini difensive: Atto prodotto dal difensore
Indagini difensive: L'atto prodotto dal difensore ha lo stesso valore di quello redatto dal PM
Rif. Cassazione penale, Sez. III, sentenza del 2 ottobre 2018 (dep. il 17 gennaio 2019), n. 2049
«L’atto redatto dal difensore, ex artt. 391-bis -ter c.p.p., ha la stessa natura e gli stessi effetti processuali del corrispondente verbale redatto dal pubblico ministero e può ritenersi nullo solo se vi è incertezza assoluta sulle persone intervenute o se manca la sottoscrizione dell’avvocato o del sostituto che lo ha redatto, e non anche se l’informatore dichiarante non ha sottoscritto l’atto foglio per foglio».
Questo fondamentale principio di “civiltà giuridica” viene affermato dalla Suprema Corte, estendendo per analogia alla redazione delle indagini difensive la disciplina di cui all’art. 142 c.p.p., prevista per il verbale del P.M, e – conseguentemente – l’atto del difensore sarà nullo solo qualora vi sia incertezza assoluta sulle persone intervenute o se manca la sottoscrizione del pubblico ufficiale che lo ha redatto, veste assunta dal difensore nella documentazione delle dichiarazioni delle persone informate sui fatti.
Tale principio costituisce una garanzia decisiva a tutela del diritto di difesa del cittadino e, qualunque provvedimento contrario, ne causerebbe una inevitabile lesione.
Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Roma confermava la decisione del G.U.P. presso il Tribunale di Cassino che condannava l’imputato ad anni 1 mesi 4 di reclusione relativamente al reato di cui all'art. 81 c.p., e art. 609 bis c.p., commi 2 e 3, assorbito il reato del capo B (artt. 81 e 582 c.p., e art. 61 c.p., n. 2).
In tale procedimento, prima della celebrazione dell’udienza preliminare, il difensore dell’imputato aveva allegato al fascicolo del Pubblico Ministero le dichiarazioni di n. 3 persone informate sui fatti e, con la successiva richiesta di giudizio abbreviato, tale documentazione diveniva a tutti gli effetti valutabile dal G.U.P. per la decisione finale.
Il Giudice – per contro – dichiarava inutilizzabili dette sommarie informazioni testimoniali in quanto non sottoscritte in ogni foglio da chi le aveva rese.
Secondo la lettera dell'art. 137 c.p.p., la mancata sottoscrizione di un atto in ogni foglio non comporta la sua invalidità, poiché la nullità è prevista solo per l'incertezza assoluta sulle persone intervenute, o per la totale mancanza della sottoscrizione.
Il difensore, infatti, deve considerarsi un pubblico ufficiale quando verbalizza le sommarie informazioni testimoniali, come ritenuto dalle Sezioni Unite della Cassazione (Sez. U, n. 32009 del 27.06.2006).
La Corte di appello,con motivazione scarna e sbrigativa confermava la sentenza del Giudice di prime cure, non prendendo in considerazione le censure proposte dalla difesa con l’atto d’appello.
In diritto, l'atto redatto dal difensore ha la stessa natura e gli stessi effetti processuali del corrispondente verbale redatto dal Pubblico Ministero, come ritenuto dalle Sezioni Unite di questa Corte: "Integra il reato di falsità ideologica in atto pubblico, p. e p. ex art. 479 c.p., la condotta del difensore che documenta e poi utilizza processualmente le informazioni delle persone in grado di riferire circostanze utili alla attività investigativa, verbalizzate in modo incompleto o non fedele, in quanto l'atto ha la stessa natura e gli stessi effetti processuali del corrispondente verbale redatto dal pubblico ministero" (SSUU, n. 32009/06).
Il difensore può incappare anche nel delitto di falso materiale in atto pubblico ex art. 476 c.p. consistente nella contraffazione, ad opera del difensore, delle firme poste in calce ai verbali delle dichiarazioni rilasciate.
L'avvocato, come già sottolineato, assume la veste di pubblico ufficiale quando procede alla formazione del verbale nel quale cristallizza in maniera fedele, corretta e integrale le informazioni ricevute ai sensi degli artt. 391 bis e ter c.p.p.
L’art. 392 bis c.p.p. indica tassativamente le forme che il difensore può utilizzare per documentare ed utilizzare nel processo i risultati dell'indagine.
Il difensore - nell'acquisire notizie da una persona a conoscenza dei fatti oggetto di un processo - può procedere in tre modi:
a) conferire con essa, senza documentare il colloquio;
b) richiedere una dichiarazione scritta;
c) procedere ad esame diretto della stessa con verbalizzazione ed eventuale fonoregistrazione.
La documentazione del ricevimento di una dichiarazione scritta o dello svolgimento dell'esame orale deve avvenire secondo le modalità previste dalla legge e sono proprio tali obblighi in capo al difensore a costituire, nello stesso tempo, garanzia di fedeltà e fondamento della valenza probatoria equivalente a quella dell’attività del Pubblico Ministero.
Sotto il profilo strettamente processuale, il verbale delle dichiarazioni rese dalla persona informata dei fatti può essere utilizzatori fini delle contestazioni ex art. 500 c.p.p. ed è acquisibile al dibattimento mediante lettura ai sensi degli artt. 512 e 513 c.p.p.
L’avvocato, che al contrario del PM non ha obbligo di operare alla ricerca della verità, se acquisisce una prova sfavorevole al proprio assistito in sede di investigazione difensiva può non produrla nel processo ma, certamente, non può e non deve distruggerla né tanto più manipolarla, in tal modo falsificandola, al fine di renderla funzionale alla difesa.
Conseguentemente deve ritenersi che gli elementi di prova raccolti dal difensore ai sensi dell'art. 391 bis c.p.p. sono equiparabili, quanto ad utilizzabilità e forza probatoria, a quelli raccolti dal pubblico ministero e, pertanto, il giudice al quale essi siano stati presentati non può limitarsi ad acquisirli, ma deve valutarli unitamente a tutte le altre risultanze del procedimento, spiegando in maniera esauriente - laddove ritenga di disattenderli - le relative ragioni.
Come sopra visto, invece, il difensore ha un obbligo di fedeltà e veridicità di verbalizzazione, tanto che nell'ipotesi di falsificazione risponde del reato di falsità ideologica in atto pubblico.
Trova applicazione, esclusivamente, la norma dell'art. 142 c.p.p., che prevede la nullità del verbale se vi è incertezza assoluta sulle persone intervenute o se manca la sottoscrizione del pubblico ufficiale che lo ha redatto.
Il principio di diritto scaturente dalla sentenza della Suprema Corte n. 2049/18, che annullava con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Roma, è che l’atto redatto dal difensore, ex artt. 391 bis e 391 ter c.p.p., ha la stessa natura e gli stessi effetti processuali del corrispondente verbale redatto dal Pubblico Ministero e può ritenersi nullo solo se vi è incertezza assoluta sulle persone intervenute o se manca la sottoscrizione dell'Avvocato o del sostituto che lo ha redatto, e non anche se il dichiarante non ha sottoscritto l’atto in ogni foglio.
Avv. Francesco Cavazzuti
Si procede all’analisi di situazioni endofamiliari e tra coniugi che versino in un particolare momento “patologico” del rapporto, in cui ...
“Spionaggio” familiare e coniugale: tutele giuridiche
Si procede all’analisi di situazioni endofamiliari e tra coniugi che versino in un particolare momento “patologico” del rapporto, in cui un soggetto ponga in essere condotte di illecita interferenza nella vita del familiare al fine di raccogliere “prove” da utilizzare in ambito giudiziario, a sostegno o a difesa di una tesi (solitamente, l’infedeltà). Le anzidette interferenze, nella prassi, si concretizzano perlopiù in illecite intromissioni nella corrispondenza dell’altro (intesa come qualsiasi forma epistolare, anche via web), indebita registrazione di conversazioni in ambito domestico, videoriprese all’interno di luoghi di privata dimora anche mediante intervento di investigatore privato. La Carta Costituzionale tutela le libertà individuali quali diritti fondamentali e inviolabili di ogni essere umano. In particolare, l'art. 15 tutela la libertà e segretezza della corrispondenza prevedendo che la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. Per corrispondenza deve intendersi non solo la posta epistolare cartacea ma tutte le attuali forme di comunicazione come ad esempio SMS, e-mail, Whatsapp, Telegram, Facebook, etc. Nessun rapporto tra persone, nemmeno il rapporto matrimoniale tra i coniugi, quindi, può limitare tale diritto. Già a far tempo dagli anni Settanta, la giurisprudenza non riconosceva al coniuge alcuno jus corrigendi sull’altro, né tantomeno il diritto di controllarne fraudolentemente le telefonate o la corrispondenza, neppure se l'attività fraudolenta fosse stata ispirata dal desiderio di accertare la sospetta infedeltà. Tale orientamento veniva ripreso e confermato vent’anni più tardi dalla Suprema Corte, la quale stabiliva che i doveri di solidarietà matrimoniale devono coesistere, in quanto non incompatibili, con il diritto alla riservatezza proprio di ciascun coniuge, che rimane intangibile anche in presenza di infedeltà matrimoniale (Cass. pen., Sez. V, 24 maggio 1974, n. 8198). In realtà, a tutt’oggi, si devono rilevare alcune pronunce recenti di tribunali che - in materia di riservatezza tra coniugi - mostrano una (ancor) lieve tendenza indirizzata verso il convincimento che il legame matrimoniale, unitamente alla coabitazione e alla condivisione degli spazi, vada ad affievolire in maniera rilevante la sfera di riservatezza di entrambi i coniugi. Sotto il profilo squisitamente penalistico, occorre tener presente che leggere le e-mail, i messaggi su Facebook e su Whatsapp, gli SMS e tutto ciò che può essere contenuto in programmi tecnologici di messaggistica, senza avere ottenuto il preventivo consenso del coniuge o del partner, costituisce reato. Nello specifico, introdursi nella casella mail del coniuge, senza averne ottenuto il consenso, configura il reato previsto e punito dall’art. 615-ter c.p. “accesso abusivo a sistema informatico o telematico”, trattandosi di uno spazio privato, accessibile soltanto mediante identificazione da parte del titolare (Cass. pen. sez. V, n. 13057/15). Risponde, altresì, del delitto di “violazione di corrispondenza altrui” ex art. 616 c.p., colui il quale semplicemente acceda alla casella mail altrui (a sua insaputa), sfruttando la memorizzazione delle credenziali di accesso nel sistema informatico. La Suprema Corte si è, addirittura, spinta a ritenere configurabile il reato di rapina ex art. 628 c.p., nel caso in cui un soggetto sottragga con forza alla fidanzata il telefono cellulare al fine di rivelare al padre della donna la relazione che la stessa aveva intrapreso con altro uomo (Cass. pen., Sez. II, 10 marzo 2015, n. 11467). In tal caso, l’ingiusto profitto – ben potendosi concretizzare in “ogni utilità” anche al di fuori del mero dato economico – era individuabile nella soddisfazione “morale” di ottenere una propria rivincita personale. Parimenti, l’installazione di apparecchiature atte alla registrazione di conversazioni telefoniche costituisce reato, in conformità a quanto stabilito dall’art. 617-bis c.p. (Cass. pen., Sez. V, 17 luglio 2014, n. 41192). A fronte delle numerose condotte che – in linea teorica – paiono idonee a configurare ipotesi di reato, si pone la problematica inerente all’utilizzazione processuale delle prove ottenute in maniera illecita. Sul punto, la summa divisio è tra utilizzabilità in sede civile e utilizzabilità in sede penale. Nel giudizio civile, in linea generale, possono essere utilizzate solo le prove ottenute in modo lecito e - pertanto - se le stesse provengono da condotte penalmente rilevanti, così come sopra se ne riportano alcuni casi esemplificativi, la prova non ha alcuna rilevanza processuale (Cass. civ., sez. VI, n. 22677/16). Mentre il codice di procedura civile non presenta una disposizione specifica sul tema delle prove illecite, in ambito penalistico l'art. 191 c.p.p. disciplina le “prove illegittimamente acquisite” stabilendo, in particolare, che “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate” e “l'inutilizzabilità è rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento”. Merita, in questa sede, di essere approfondita la categoria della “inutilizzabilità”, così come intesa dal legislatore penale. La Suprema Corte ha, infatti, stabilito che l’art. 191 c.p.p., nella parte in cui sancisce l’inutilizzabilità delle prove ottenute in violazione dei divieti di legge, deve essere interpretato nel senso che la prova risulta inutilizzabile solo se illegittima di per sé, in quanto intrinsecamente illecita per il contesto di norme che la disciplinano e che ne prevedono già una sanzione, e non per essere stata ottenuta in maniera non rituale o atipica. In ossequio a tale orientamento, prove diverse da quelle legittimamente acquisite debbono intendersi non tutte le prove le cui formalità di acquisizione non siano state osservate, ma solo quelle che non si sarebbero potute acquisire proprio in ragione dell'esistenza di un espresso o implicito divieto (Cass. pen., Sez. II, 27 marzo 2008, n. 15877). Pertanto, risultano inutilizzabili non prove “atipiche” o “illegittime” ma soltanto prove illegalmente ottenute poiché l’attività profusa per ottenerle costituisce di per sé violazione sanzionata da norme giuridiche espresse. Proprio in questo senso, l’art. 191 c.p.p. è posto a tutela della difesa e limita grandemente le prove a carico illegittimamente acquisite in quanto non può essere esclusa a priori la prova illecita laddove questa vada a vantaggio della difesa mentre, contestualmente, la medesima non può essere valutata “positivamente” al fine di strutturare una accusa, sia essa privata o pubblica. Se è pur vero che la norma di cui all’art. 191 è inclusa nel codice di procedura penale, è altrettanto lampante come il solenne significato che la stessa norma porta con sé, di evidente derivazione costituzionale, si estende analogicamente anche all’ambito civile, che ne subisce l’influenza. Non sarebbe, infatti, logico un ordinamento che, da un lato, dichiarasse inutilizzabili prove illecite in quanto formatesi in contrasto con norme espressamente previste e, dall’altro lato, le ritenesse in qualche modo ammissibili in quanto utili alla mera funzione processuale.
Avv. Francesco Cavazzuti
Il nostro legislatore nel 2011 ha apportato all'istituto dell'assegno una rilevante modifica. Al fine di velocizzare i tempi di...
Dematerializzazione degli assegni: come esercitare i diritti basati sul titolo?
Il nostro legislatore nel 2011 ha apportato all'istituto dell'assegno una rilevante modifica.
Al fine di velocizzare i tempi di accredito della valuta sul conto corrente, ha dato avvio alla procedura telematica di pagamento per gli assegni bancari, stabilendo, come vedremo, la distruzione (dematerializzazione) del titolo cartaceo.
I tempi con cui si sta giungendo a detta innovazione non sono stati brevi, ma i tempi di accredito delle somme in conto corrente risultano velocizzati con risultato utile per gli utenti quando l'incasso va a buon fine.
I problemi nascono o possono nascere in caso di mancato pagamento del titolo.
Per meglio comprendere quando si vuole evidenziare appare necessaria la seguente premessa con richiamo dei riferimenti normativi.
Il decreto legge 70/2011 all'art. 8 comma 7, stabilisce, nella parte iniziale, che:
"Per allineare allo standard europeo l'esercizio del credito sono apportate le seguenti modifiche:
a) l'articolo 20, comma 1, del Decreto Legislativo 27 gennaio 2010, n. 11, e' sostituito dal seguente:
"1. Il prestatore di servizi di pagamento del pagatore assicura che dal momento della ricezione dell'ordine l'importo dell'operazione venga accreditato sul conto del prestatore di servizi di pagamento del beneficiario entro la fine della giornata operativa successiva.
Fino al 1° gennaio 2012 le parti di un contratto per la prestazione di servizi di pagamento possono concordare di applicare un termine di esecuzione diverso da quello previsto dal primo periodo ovvero di fare riferimento al termine indicato dalle regole stabilite per gli strumenti di pagamento dell'area unica dei pagamenti in euro che non può comunque essere superiore a tre giornate operative. Per le operazioni di pagamento disposte su supporto cartaceo, i termini massimi di cui ai periodi precedenti possono essere prorogati di una ulteriore giornata operativa.";"
La norma stabilisce quindi tempi più veloci di accredito degli importi, stabilendo i termini relativi e prolungandoli di un giorno qualora le operazioni di pagamento siano disposte in virtù di supporto cartaceo.
Nella parte successiva la stessa norma prevede la possibilità per gli istituti bancari di gestire le richieste di pagamento degli assegni (bancari, postali, circolari, vaglia postali, titoli speciali della Banca di Italia) mediante procedura telematica, stabilendo che:
"b) al Regio Decreto 21 dicembre 1933, n. 1736, sono apportate le seguenti modifiche:
1) all'articolo 31 é aggiunto, in fine, il seguente comma: "L'assegno bancario può essere presentato al pagamento, anche nel caso previsto dall'articolo 34, in forma sia cartacea sia elettronica.";
2) il numero 3) del primo comma dell'articolo 45 é sostituito dal seguente: "3) con dichiarazione della Banca d'Italia, quale gestore delle stanze di compensazione o delle attività di compensazione e di regolamento delle operazioni relative agli assegni, attestante che l'assegno bancario, presentato in forma elettronica, non é stato pagato.";
3) all'articolo 61 é aggiunto, in fine, il seguente comma: "Il protesto o la constatazione equivalente possono essere effettuati in forma elettronica sull'assegno presentato al pagamento in forma elettronica.";
4) all'articolo 86, primo comma, é aggiunto, in fine, il seguente periodo: "All'assegno circolare si applica altresì la disposizione dell'assegno bancario di cui all'articolo 31, terzo comma.";"
E fin qui detta normativa non sembrava rivoluzionare la materia.
L'utilizzo di procedura telematica era già prevista fin dal lontano 1993, con limiti di importo (check truncation) che prevedeva però la conservazione dell'originale cartaceo del titolo che, in caso di mancato pagamento, il negoziatore restituiva al portatore che lo aveva posto all'incasso che poteva così esercitare i propri diritti di credito anche mediante l'azione basata sul titolo.
La normativa del 2011 prosegue però stabilendo anche:
"c) all'articolo 66 del regio decreto 21 dicembre 1933, n. 1736, é aggiunto, in fine, il seguente comma: "Le copie informatiche di assegni cartacei sostituiscono ad ogni effetto di legge gli originali da cui sono tratte se la loro conformità all'originale e' assicurata dalla banca negoziatrice mediante l'utilizzo della propria firma digitale e nel rispetto delle disposizioni attuative e delle regole tecniche dettate ai sensi dell'articolo 8, comma 7, lettere d) ed e), del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70;"
Tale aggiunta del secondo comma all'art. 66 legge assegno indica l'intento di muoversi non solo nella direzione della totale eliminazione della trasmissione del titolo originale cartaceo e sostituzione di esso con la copia informatica, ma anche quello della successiva eliminazione del titolo cartaceo.
Il decreto legge demandava poi a un decreto ministeriale le modalità attuative e a un regolamento della Banca di Italia le regole tecniche per l'applicazione delle disposizioni, da emettersi nei 24 mesi successivi:
"d) con regolamento emanato, ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il Ministro dell'Economia e delle Finanze, sentita la Banca d'Italia, disciplina le modalità attuative delle disposizioni di cui alle precedenti lettere b) e c);
e) la Banca d'Italia, entro 12 mesi dall'emanazione del regolamento di cui alla lettera d), disciplina con proprio regolamento le regole tecniche per l'applicazione delle disposizioni di cui alle precedenti lettere e del regolamento ministeriale;"
Precisando infine che:
"f) le modifiche apportate al regio decreto 21 dicembre 1933, n. 1736, dalla lettera b) del presente comma entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica del regolamento della Banca d'Italia di cui alla lettera e);
f-bis) dopo il comma 3 dell'articolo 8 della legge 15 dicembre 1990, n. 386, e successive modificazioni, e' inserito il seguente: "3-bis. L'autenticazione di cui al comma 3 del presente articolo e' effettuata ai sensi dell'articolo 21, comma 2, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. L'autenticazione deve essere rilasciata gratuitamente, tranne i previsti diritti, nella stessa data della richiesta, salvo motivato diniego"
I tempi si sono poi allungati. Il parere positivo della Corte dei Conti giungeva solo nel 2013. Il decreto attuativo del MEF nel 2014 (D.M. 205/2014 del 03/10/2014 pubblicato in G.U. il 06/03/2015). Il regolamento della Banca d'Italia nel 2016 (Regolamento 98975 del 22/03/2016 pubblicato in G.U. il 30/04/2016).
Il decreto attuativo del MEF stabilisce all'art. 6 comma 5 che "Fatti salvi i casi eventualmente stabiliti dal Regolamento della Banca d'Italia, gli assegni cartacei sono conservati per un periodo di sei mesi dallo spirare del termine di presentazione".
I titoli cartacei andranno poi distrutti.
Ci si chiede: Sempre? Anche in caso di mancato pagamento?
Ed in tal caso, il portatore come può esercitare i propri diritti basati sul titolo?
Il Regolamento della Banca Italia all'art. 6 stabilisce che:
"1 L'assegno cartaceo é conservato dal negoziatore per sei mesi dallo spirare del termine di presentazione. Durante tale periodo l'assegno cartaceo viene esibito solo su richiesta dell'Autorità giudiziaria. Ogni altra richiesta di esibizione o di copia viene evasa sulla base dell'immagine dell'assegno.
2. Decorso il periodo di conservazione di cui al comma precedente l'assegno cartaceo e' distrutto, fatto salvo il caso in cui siano pendenti sul titolo richieste di sequestro o ordini di esibizione dell'Autorità giudiziaria ovvero sia stata disconosciuta la firma dell'assegno o il negoziatore abbia evidenza di altre esigenze di difesa."
L'art. 15 del predetto Regolamento stabilisce poi che:
"1. Il negoziatore rilascia al portatore del titolo una sola volta:
a) una copia analogica dell'immagine dell'assegno con le informazioni relative al mancato pagamento registrate ai sensi dell'art. 5, comma 1 del Regolamento, su cui e' apposta una dichiarazione del negoziatore attestante la sua conformità all'originale informatico conservato nei propri archivi;
b) una copia analogica del protesto o della constatazione equivalente ovvero del documento attestante la non protestabilità del titolo, su cui e' apposta una dichiarazione del negoziatore attestante la sua conformità all'originale informatico conservato nei propri archivi.
2. A richiesta degli aventi diritto, il negoziatore rilascia copie semplici, analogiche o informatiche, della sola immagine dell'assegno, dell'immagine dell'assegno con le informazioni relative al mancato pagamento registrate ai sensi dell'art. 5, comma 1 del Regolamento, del protesto o della constatazione equivalente ovvero del documento attestante la non protestabilità del titolo."
L'originale cartaceo viene quindi distrutto anche in caso di mancato pagamento e pertanto non può essere restituito al portatore.
L'originale cartaceo viene sostituito da una copia informatica del titolo che viene conservata dall'istituto bancario presso cui è negoziato l'assegno.
Il sistema non prevede che detta copia informatica dell'assegno venga consegnata al portatore del titolo.
Con il sistema attuale, peraltro, il portatore del titolo non potrebbe utilizzare tale copia informatica per l'esercizio dei propri diritti.
A colui che ha presentato all'incasso il titolo risultato insoluto, viene rilasciata (UNA SOLA VOLTA) dalla banca presso cui è stato negoziato il titolo, una dichiarazione che deve essere redatta secondo i precetti stabiliti dall'art. 15 del regolamento sopra riportato.
In caso di mancato pagamento dell'assegno, tale dichiarazione della banca può essere legittimamente utilizzata per esercitare i diritti nascenti dal titolo?
La risposta sembra dover essere necessariamente SI.
In caso contrario il legislatore del 2011 avrebbe avuto intenzione di rivoluzionato la materia eliminando le azioni basate sul titolo.
La prassi ha però insegnato che:
1) le dichiarazioni di cui all'art. 15 del Regolamento sono spesso redatte in forma errata o comunque non puntuale.
Pur essendo vero che la norma non specifica un modello esatto, ho potuto personalmente constatare:
- dichiarazioni che contengono riferimenti normativi errati;
- dichiarazioni che non contengono l'indicazione degli elementi dell'assegno e/o del relativo protesto o atto equivalente, bensì fanno riferimento ad un assegno (generico) con mera indicazione della sola data di insoluto e dell'importo del titolo e nulla più, ritenendo, reputo io erroneamente, di superare il problema allegando copia dell'assegno su foglio a parte.
Vero che la norma non specifica un modello, ma risulta abbastanza chiara nello stabilire che le dichiarazioni sono apposte SULLA copia dell'assegno e/o SULLA copia del protesto o atto equivalente (commi 1 e 2 art. 15 regolamento).
Dichiarazioni redatte male legittimeranno l'Ufficiale Giudiziario al relativo rifiuto, sia in sede di notifica del precetto o peggio successivamente in sede di richiesta di esecuzione.
Non sono solo le dichiarazioni formulate male a poter creare problemi.
Gli Ufficiali Giudiziari finora contattati non hanno assunto un atteggiamento univoco in relazione all'innovazione di cui si parla.
Mi è capitato infatti di sentir dire agli Ufficiali Giudiziari, a cui ricordiamo è necessario rivolgersi per la richiesta di notifica del precetto e poi per la richiesta di esecuzione, di ritenere di non poter procedere a pignoramento richiesto sulla base delle dichiarazioni sostitutive.
Non posso però di aver ancora avuto risposte definitive.
Visto l'art. 66 comma 2 legge assegno, ritengo che l'Ufficiale Giudiziario non possa negare la dichiarazione di conformità nel precetto e la successiva esecuzione se richiesta, esclusivamente però nei casi in cui la dichiarazione di cui all'art. 15 del Regolamento della Banca di Italia sia redatta dalla banca negoziatrice in modo esatto e puntuale.
La dichiarazione della banca ex art. 15 viene ad assumere la valenza del titolo esecutivo distrutto (almeno questo sembrava l'intento del legislatore).
Rammentiamo, infatti, che:
- è una dichiarazione che può essere rilasciata una sola volta (sostituisce così l'originale cartaceo del titolo che viene distrutto);
- deve (dovrebbe) essere redatta su copia del titolo e del relativo protesto o atto equivalente e quindi contenere tutti gli elementi del titolo;
- deve contenere la specifica che la copia del titolo e del relativo protesto o atto equivalente è conforme alle relative copie informatiche conservate dalla banca dichiarante che ex art. 66 legge assegno sostituisce a tutti gli effetti il titolo cartaceo.
“Non costituisce reato il riempimento abusivo di titoli di credito, anche in assenza di un patto di riempimento tra le parti” Si esamina...
Non costituisce reato il riempimento abusivo di titoli di credito
“Non costituisce reato il riempimento abusivo di titoli di credito, anche in assenza di un patto di riempimento tra le parti”
Si esamina il caso in cui Tizio consegnava a Caio - a titolo di garanzia verso terzi - n. 3 assegni dal medesimo sottoscritti e compilati esclusivamente negli importi, non riportanti né intestatari né tanto meno date.
Tra le parti non veniva stipulato alcun patto di riempimento.
Caio, a distanza di 9 anni dalla consegna dei titoli, senza averli mai posti all’incasso e conscio del fatto che Tizio avesse, nelle more, estinto il rapporto di conto corrente su cui erano stati tratti detti titoli, se li intestava abusivamente e li datava al fine di rendere credibile un’azione giudiziale tesa al recupero del proprio (solo apparente) credito nei confronti di Tizio, a cui veniva – infatti - notificato un decreto ingiuntivo per un ammontare pari alla somma degli importi dei 3 assegni.
Occorre, in primis, valutare se Tizio - per difendersi dalla spregiudicata condotta di Caio - possa avvalersi anche della tutela penale, in aggiunta all’ovvia facoltà di proporre ferma opposizione al decreto ingiuntivo.
La fattispecie fattuale pare astrattamente richiamare alcune tipologie di reati, quali i delitti p. e p. dagli artt. 486 (Falsità in foglio firmato in bianco. Atto privato), 491 (Falsità in testamento olografo, cambiale o titoli di credito) e 56, 640 (tentativo di truffa) c.p.
L’art. 486 c.p. stabilisce che “Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, abusando di un foglio firmato in bianco, del quale abbia il possesso per un titolo che importi l’obbligo o la facoltà di riempirlo, vi scrive o fa scrivere un atto privato produttivo di effetti giuridici, diverso da quello a cui era obbligato o autorizzato, è punito, se del foglio faccia uso o lasci che altri ne facciano uso, con la reclusione da sei mesi a tre anni.
Si considera firmato in bianco il foglio in cui il sottoscrittore abbia lasciato bianco un qualsiasi spazio destinato ad essere riempito”.
La condotta materiale di abusivo riempimento del titolo di credito, che rientrava a pieno titolo nell’ambito di applicazione della fattispecie sopra riportata (vedi Cass. pen., sez. V, 11.05.1981), ed in esso veniva debitamente sanzionata, non assume più – a tutt’oggi – alcuna rilevanza penale in virtù della “depenalizzazione” intervenuta a mezzo del D.Lvo 15.01.2016 n. 7, il quale ha abrogato gli artt. 485 (falso in scrittura privata) e 486 c.p., trasformandoli in meri illeciti civili.
Contestualmente, il legislatore della riforma introdotta con D.Lvo n. 7/2016 ha sostituito il vecchio testo dell’art. 491 c.p. con il seguente “Se alcuna delle falsità prevedute dagli articoli precedenti riguarda un testamento olografo, ovvero una cambiale o un altro titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore e il fatto è commesso al fine di recare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, si applicano le pene rispettivamente stabilite nella prima parte dell’articolo 476, e nell’articolo 482. Nel caso di contraffazione o alterazione degli atti di cui al primo comma, chi ne fa uso, senza essere concorso nella falsità, soggiace alla pena stabilita nell’articolo 489 per l’uso di atto pubblico falso”.
La ratio della norma è quella di rafforzare il trattamento sanzionatorio previsto per la contraffazione o alterazione delle specifiche tipologie di scritture private indicate nell’articolo (testamento e titoli di credito trasmissibili per girata), in relazione alla maggiore forza probatoria che le caratterizza e dei pericoli di falsificazione che conseguono al loro particolare regime giuridico.
Tali scritture, proprio in virtù del loro sopra descritto status, sono le uniche ancora oggi tutelate dal legislatore penale a fronte di condotte di falsificazione (materiale) e alterazione, mantenendo per l’intero ordinamento una rilevanza espressamente superiore rispetto a qualunque altra forma di scrittura privata.
La condotta tipica di falsificazione e alterazione, intesa ai sensi dell’art. 491 c.p., è da intendersi come la contraffazione, anche tramite imitazione (es. di firma), di elementi essenziali e strutturali della scrittura, tali da indurre in errore il terzo.
Del tutto inidoneo a configurare la condotta del novellato art. 491 c.p. è il riempimento non autorizzato di un titolo di credito, che non è stato richiamato dal legislatore della riforma e, pertanto, ad oggi, risulta non penalmente rilevante.
Ai fini di una esauriente valutazione della vicenda, occorre considerare se la condotta tenuta da chi (Caio nella fattispecie), tramite abusivo riempimento, si intesta degli assegni ai fini di agire giudizialmente per il recupero del credito, possa ritenersi sussumibile alla fattispecie di cui agli art. 56, 640 c.p.
Il delitto di truffa è ricompreso, in dottrina, tra i reati contro il patrimonio a cooperazione artificiosa della vittima, in quanto quest’ultima riveste una funzione strutturale in una fase “intermedia” della sequenza criminosa.
Pertanto, ai fini della configurazione di tale reato, è imprescindibile che l’atto di disposizione patrimoniale venga posto in essere volontariamente dalla vittima, la quale, indotta in errore mediante artifizi o raggiri dal soggetto agente, si crei una falsa rappresentazione della realtà.
Nella fattispecie in analisi, per contro, la vittima (ossia Tizio) è perfettamente a conoscenza del tentativo meschino posto in essere da Caio al fine di ottenere l’ingiusto profitto, non sussistendo – pertanto – alcuna induzione in errore del soggetto passivo.
Inoltre, l’atto di disposizione patrimoniale non verrebbe effettuato da Tizio in maniera volontaria in qualità di soggetto ingannato, ma sarebbe imposto giudizialmente da un terzo soggetto (il giudice, appunto) sulla base di titoli di credito compilati illegittimamente, esulando – in tal modo – dalla condotta tipica del delitto ex art. 640 c.p.
Viene, a questo riguardo, in rilievo la tematica relativa alla cosiddetta truffa processuale.
In proposito la Cassazione ebbe ad affermare che la truffa processuale (che consiste nel fatto di chi, in un giudizio civile, con artifici o raggiri, inducendo in errore il giudice, ottenga, o cerchi di ottenere, una decisione favorevole, e quindi un ingiusto profitto in danno della controparte) non integra gli estremi del delitto di truffa.
Si è ritenuto al riguardo che se è vero che il delitto di truffa è ravvisabile anche quando il soggetto raggirato e persona diversa dal danneggiato, occorre tuttavia, ai fini della esistenza del delitto, un atto di disposizione patrimoniale da parte del soggetto che viene ingannato; e tale atto non sussiste nella ipotesi della truffa processuale, perché il giudice non esercita un potere di disposizione riguardo al patrimonio delle parti, ma un potere giurisdizionale eminentemente pubblicistico (Cass. II, n. 6757/1976). Il principio è stato ribadito in modo costante nel senso che, in tema di truffa, pur non esigendosi l'identità tra la persona indotta in errore e quella che subisce conseguenze patrimoniali negative per effetto dell'induzione in errore, va esclusa la configurabilità del reato nel caso in cui il soggetto indotto in errore sia un giudice che, sulla base di una testimonianza falsa, abbia adottato un provvedimento giudiziale contenente una disposizione patrimoniale favorevole all'imputato: detto provvedimento non è, infatti, equiparabile ad un libero atto di gestione di interessi altrui, costituendo esplicazione del potere giurisdizionale, di natura meramente pubblicistica, finalizzato all'attuazione delle norme giuridiche ed alla risoluzione dei conflitti di interessi tra le parti (Cass. II, n. 29929/2007).
Concludendo, alla luce di quanto sopra argomentato, è lecito sostenere che condotte analoghe a quella posta in essere da Caio non trovino più, successivamente al D.Lvo n. 7/2016, una tutela a livello di extrema ratio penale, ma debbano essere discusse esclusivamente in sede civile.
Avv. Francesco Cavazzuti
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Cass. sez. II pen, 15.12.2017, n. 832 (dep. 11.01.2018)
La Suprema Corte, nella sopra citata pronuncia, ha statuito che «la riduzione di pena conseguente alla scelta del rito abbreviato incidendo sul trattamento sanzionatorio concreto, ha ricadute necessariamente sostanziali, la cui natura non muta, nonostante siano collegate non all'illecito penale in sé, ma ad un comportamento successivo, consistente nell'esercizio di una facoltà processuale. Pertanto, l’art. 442, secondo comma, c.p.p., come novellato dalla legge 103/2017, nella parte in cui prevede che, in caso di condanna, la pena che il giudice determina tenendo conto di tutte le circostanze è diminuita della metà, anziché di un terzo, se si procede per una contravvenzione, pur essendo disposizione processuale, comporta un trattamento sostanziale sanzionatorio più favorevole e si applica come stabilisce l’art. 2, quarto comma, c.p., anche alle fattispecie anteriori, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile».
Quanto sopra è stato ribadito in merito al ricorso proposto contro la sentenza della Corte d’Appello di Ancona che confermava la condanna nei confronti del ricorrente per il reato di cui all’art. 187, commi 1 e 1-bis C.d.S. per aver provocato, nel 2012, un sinistro stradale, guidando in stato di alterazione psicofisica, dopo l’assunzione di sostanze stupefacenti.
Tra i vari motivi del ricorso l’imputato deduceva la retroattività dell’art. 442, comma 3, c.p.p. nella nuova formulazione introdotta dalla riforma Orlando e quindi la necessità di una maggiore riduzione di pena in ragione della scelta del rito abbreviato.
Il Giudice di legittimità, accogliendo il motivo di ricorso, annullava senza rinvio la sentenza impugnata in relazione alla misura della pena.
La regola della retroattività della legge più favorevole non si applica alla norme di carattere processuale, tuttavia la qualifica nel diritto interno del testo di legge interessato non può essere determinante.
In effetti, se è vero che gli articoli 438 e 441 - 443 del c.p.p. descrivono il campo di applicazione e le fasi processuali del giudizio abbreviato, rimane comunque il fatto che il paragrafo 2 dell’articolo 442 è interamente dedicato alla severità della pena da infliggere quando il processo si è svolto secondo questa procedura semplificata, pertanto deve concludersi che il trattamento sanzionatorio ha sempre ricadute sostanziali, anche quando venga ricollegato alla scelta del rito, ed è dunque soggetto alla disciplina dell’art. 2 c.p.
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